mercoledì 15 marzo 2017

Il Museo universale

per gentile concessione di Antonio Cipullo

Il Museo universale: dal sogno di Napoleone a Canova. La nascita dell’idea del bene culturale, dalla rivoluzione alla restaurazione.

Una Mostra, quella che si sta concludendo alla Scuderie del Quirinale di Roma, curata da Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce, che davvero vale un momento di riflessione.
In primo luogo è la dimostrazione che è possibile fare mostre di soli capolavori avendo un progetto scientifico alle spalle, e non accostando Van Gogh-Tutankhamon-Caravaggio (ved. Goldin); in secondo luogo va a raccontare al grande pubblico, con molta chiarezza, in che modo e quali conseguenze portarono le spoliazioni napoleoniche alla definizione giuridica e civile di “Bene Culturale”.
Nell’immaginario comune le spoliazioni napoleoniche vengono ancora percepite come il più grande saccheggio che l’Italia abbia mai subito nella sua storia: FALSO (abbiamo fatto quasi tutto da soli svendendo il nostro patrimonio).
Dietro la requisizione di opere d’arte vi era invece un chiaro ideale di libertà. I francesi carichi di ideali post rivoluzionari credevano che togliendo i dipinti dalle chiese di Roma, Venezia, Milano, Bologna, Modena e Firenze li avrebbero consegnati al mondo, li avrebbero finalmente dato quello status di exemplum virtutis che si meritavano (non tutti i francesi erano di quest’opinione, a dover di cronaca va menzionato Quatremere de Quincy che nelle sue letters à Miranda gridò alla scandalo, sostenendo il valore del contesto, e quindi che il Laocoonte poteva esprimere completamente la sua funzione solo a Roma con i suoi palazzi, le sue chiese e la sua luce. Fu altresì uno dei più grandi sostenitori dell’esportazione dei marmi Elgin, con una lunga invettiva nei confronti di Atene e della sua decadenza, la coerenza non è mai andata di moda).
Caduto Napoleone, gli stati vincitori, e quindi Stato della Chiesa, Ducato di Modena, Granducato di Toscana e Regno di Napoli dall’Italia, Ducato di Parma, Regno di Sardegna e Ducato di Parma si recarono a Parigi, con liste e inventari alla mano, e riportarono a casa la gran parte degli oggetti, solo una minima parte rimase in Francia, la maggior parte dei casi perché inviati nei musei periferici e non più rintracciabili. Antonio Canova, emissario dello Stato Pontificio, si scontrò con l’ostruzionismo fatto da Vivant Denon (già direttore del Louvre Napoleonico e poi del Louvre Reale) e arrivò al punto di entrare nel museo scortato dalle truppe Inglesi e prussiane.



Il ritorno mutò completamente la percezione dell’opera d’arte e la sua ultima destinazione, ormai erano pienamente concepite non solo come un exemplum virtutis, ma come un vero e proprio oggetto identitario delle comunità. A perpetua memoria di questo grande cambiamento restano la Pinacoteca di Brera, la Pinacoteca Nazionale di Bologna e le Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Il primo piano della mostra racconta proprio del ritorno delle opere, in che modo furono selezionate dai francesi per il Museo Universale, e che destinazione ebbero una volta tornate.
Al secondo piano invece viene narrata la nascita della fortuna dei primitivi, cioè quei maestri del primo rinascimenti che sino ai primi anni dell’ottocento erano considerati “corrotti” e “senza maniera”. La riscoperta va a delinearsi proprio con il viaggio italiano di Denon nel 1811, nel quale andava alla ricerca proprio di quei pittori per dare una completa (e universale) genealogia alle collezioni francesi.
Consiglio a tutti di recarsi a vedere la mostra e, se qualcuno è più interessato, di leggere il catalogo, il quale delinea con chiarezza tutte le vicende da me solo accennate.










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