lunedì 3 aprile 2017

L'etica del peccato occidentale e i riti di purificazione orientali


Da

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il dipinto mostra sant'agostino, sullo sfondo dei libri ©

Sant'Agostino dipinto da Botticelli

Nel solco della nostra conversazione, la posizione di Agostino è tutto sommato semplice. Una volta consolidatasi, la Chiesa si era trasformata in un’istituzione pubblica, e come tale volta al conseguimento di un ordine sociale che ne garantisse la stabilità; proprio per questo essa non poteva più permettersi di nutrire istanze di carattere utopico ma doveva volgere le aspettative messianiche del suo popolo verso una dimensione che non appartenesse più alla storia, o, in poche parole, alla politica. Più che spegnere i sogni, un potere accorto li volge altrove, e questo altrove stava lì, a disposizione di chi lo sapesse adattare alle nuove esigenze. Agostino, uomo affamato di esperienze intellettuali, conobbe Platone nella versione teologicizzata delle sette neoplatoniche, e con estrema raffinatezza e sapienza seppe trarne il senso psicologicamente più utile alla metamorfosi della Chiesa. Ben lo comprese Petrarca il tremendo significato di questo passo delle Confessioni: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi». Non fuori ma dentro di noi sta la verità, perché Dio lo incontriamo nella nostra anima. Felicità autentica, e vero Bene, è dunque, platonicamente e plotinianamente, la cura dell’anima; una cura che non può avere come fine un’immane abbuffata di mille anni, ma uno stravolgimento del modo stesso di esistere. Ma andiamo con ordine.
Come aveva insegnato Platone, l’amore nasce dalla mancanza. Anche il desiderio, quindi, che è l’umana manifestazione di questa mancanza. Ma qual è la mancanza originaria che rende l’uomo bisognoso di felicità? Non dobbiamo mai dimenticare che Dio aveva creato Adamo completamente libero dal bisogno, senza mancanze. Che cosa c’è all’origine del “vuoto che ci riempie”? Il Peccato, la grande categoria ontologica della nostra civiltà cristiana.

Piccolo popolo - Un momento …. Vuoi dire che non c’era l’idea del peccato prima del cristianesimo? E tutti quei rituali di purificazione che riempivano le liturgie pagane, per allontanare l’ira degli dei dalle colpe degli uomini?
Ermetis - Per carità, qui scivoliamo su un terreno troppo pericoloso. Varrebbe la pena di aprire una conversazione a parte, ma ci troveremmo ben presto in un labirinto inestricabile. Provo a semplificare, ma devo chiedervi di non pretendere troppo.
I meccanismi generativi della colpa sono stati studiati fin troppo a fondo dalla psicanalisi, ed è questa la prima cosa su cui dovremo glissare. Questo solo per dire che oggi abbiamo piena consapevolezza del fatto che è nella nostra natura mentale soffrire di sensi di colpa. Quindi, sotto questo aspetto, non è il principio di colpa in sé ciò che caratterizza la mentalità cristiana. È la sua natura, come potevate già immaginare. Intanto vediamo di definire il più sinteticamente possibile questo principio: esso consiste, antropologicamente, nell’infrazione della legge. Il non sottostare a un obbligo creato per mettere ordine nel caos genera nuovo disordine, e di questo dobbiamo pagare le conseguenze. La colpa è quindi un atto di arroganza (la famosa Ybris greca) o tracotanza, il voler uscire da un’armonia (cosmos) prestabilita per affermarsi come individualità. Il peccato di Lucifero non ha quindi una tonalità diversa da quella dei Titani ribelli della mitologia greca, o dello stesso Prometeo, se vogliamo. Ma le cose cambiano se entriamo nel mito del Paradiso perduto e del Peccato originale. Perché qui si parla non più di una responsabilità personale della colpa, o di un semplice destino che accomuna i mortali nel loro essere mancanti, cioè finiti. Qui è in gioco una Colpa che da Uno si irradia “naturalmente”, per generazione carnale, su tutti. Come può essere colpevole chi non ha peccato? Verso che cosa siamo responsabili tutti, prima ancora di esserci? Se c’è una dimensione della colpa, del peccato, che appartiene all’uomo in quanto tale, allora è l’uomo in quanto tale che è colpevole, a prescindere dalla sua stessa volontà. È la natura umana che è corrotta

nell'immagine, in bianco e nero, si vede un angelo che precipita dal cielo (con ali somiglianti a quelle di un pipistrello - no, non ridere, non è batman :D)) ©

Gustave Doré, la caduta di Lucifero dal Paradiso

Piccolo popolo - È un’infelicità che deriva da un “senso di colpa” più che da un “senso di inferiorità”.
- Effettivamente sono cose ben diverse.
- Il cristiano quindi sarebbe un tipo di uomo più maturo, più consapevole, rispetto al pagano?
- Forse più sofferente, perché la sua disperazione sa contro chi rivolgersi. In fondo so di essere sempre io il vero responsabile dei miei mali. Edipo non può dire lo stesso.
Ermetis - Certo. Conosco il Bene, e non lo voglio. Sono scisso tra l’amore per me e l’amore per il Bene. In questa scissione abita il peccato. Per questa ragione l’Albero biblico è detto “della Conoscenza del bene e del male”, che “tradotto” significa: del potere e non volere. L’idea del peccato si insinua in ogni atto che ci rende responsabili di una scissione, ma a ciò si aggiunge il fatto che questa scissione è già parte di noi. Come se non potessimo non peccare.
Piccolo popolo - Quindi, quando il serpente dice «Voi sarete come dei» non intende indicare ad Adamo ed Eva uno stato di vita superiore, ma il contrario: staccarli dalla totalità, renderli individui centrati su di sé, sull’io?
Ermetis - Esattamente. La condizione umana è la scissione: siamo liberi perché abbandonati a noi stessi.
Piccolo popolo - Il bene quindi sarebbe il ritorno all’unità col tutto, il male persistere nella scelta di sé.
Ermetis - Direi che ci siamo. Torniamo allora ad Agostino.

È facile adesso capire il nesso felicità/infelicità in questo particolare orizzonte. Se l’infelicità è la nostalgia per il paradiso perduto, per la totalità abbandonata per amore di sé, felicità non può che essere la pienezza e la gioia del ritorno (nostos) nel tutto di cui siamo parte. La via del ritorno è aspra e difficile, perché implica la sconfitta della nostra seconda natura, quella sorta dalla scissione; perché implica, in vista della resurrezione, la volontà di morire. La conversione del cuore è la via regia per questo ritorno, una sorta di sui-cidio, cioè di annientamento del sé nell’abbandono. “A orecchio” ricorda le innumerevoli vie della trascendenza orientale, ma la differenza è grande: perché il cristianesimo richiede che, per fede, l’uomo rinunci non a una “forma esteriore”, a un’apparenza, quasi al bozzolo che gli impedisce di diventare farfalla (e cosa ci sarebbe di tragico in questo?). No: il cristianesimo agostiniano chiede che l’uomo rinunci alle ali con cui ha intrapreso il suo volo nella storia, che ritorni nel bozzolo di una identità unitaria che ha come modello l’armonia della Trinità. L’uomo che deve convertirsi non è l’uomo senza storia di una società di caste; il cristiano è innanzitutto il figlio dell’Occidente razionale e pragmatico, è un uomo che si è fatto da sé, che si è autodeterminato in una prospettiva dinamica di accrescimento del proprio potere. Nietzsche direbbe che è l’uomo della Volontà di potenza. È a quest’uomo che Agostino prospetta un’idea di felicità che sorge dal taglio delle proprie radici, da un atto di morte ben più doloroso che il semplice lasciar essere se stessi della meditazione orientale. Bene, per Agostino, è dire un no definitivo alla città terrena; ora, pensiamo questo pensiero in tutta la sua terribilità, perché questo precetto è dato a un uomo che si è forgiato nella città (polis). Chi può essere tanto forte da riuscire in quest’impresa? Il messaggio è davvero tremendo, perché è rivolto a uno spicchio di umanità che non è portata a pensare in termini di armonia universale, ma solo in quelli dell’interesse individuale. Questa non è la solita condanna del mondo nei termini messianici del millenarismo apocalittico, di un cristianesimo populista e da trincea come quello dei primi martiri e delle prime folle di miseri attratti da un sogno di riscatto. Questo è il cristianesimo trionfante che dice ai suoi fedeli: non c’è bene nel mondo, non c’è progresso, ma solamente solitudine e disperazione; non adoperarti per te stesso, perché nella solitudine non si costruisce nulla. Non c’è giustizia qui, alla fine di tutto, ma solo amore; e l’amore lo costruisci abbandonando la cura di te stesso.

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