domenica 24 dicembre 2017

Elogio della follia

https://doc.studenti.it/vedi_tutto/index.php?h=cf1de2da&pag=1

ELOGIO DELLA FOLLIA 
di Erasmo da Rotterdam 

Si tratta di un'opera molto originale in cui, con toni ironici e nel contempo estremamente persuasivi, l'autore affronta l'insolito tema della Follia, per sostenere che essa sarebbe la vera dominatrice dell'intera civiltà ma anche dell'esistenza di ciascun uomo, sia egli un ecclesiastico o un laico, un saggio o un ignorante, un potente o un umile. 

La Follia, che viene allegoricamente rappresentata come una dea in vesti di donna, sarebbe infatti all'origine di ogni bene sia per l'umanità, sia per gli stessi dèi che riceverebbero al pari dei mortali i suoi doni: "io, io sola sono a tutti prodiga di tutto". 

Ciò vale in primo luogo per il dono della vita, considerato che nel momento in cui sia l'uomo che il dio si dedicano alla procreazione debbono necessariamente "abbandonarsi un poco a qualche leggerezza e follia". 
Nessuno genera o è stato generato se non grazie all' "ebbrezza gioiosa" della Follia. E perché un'esistenza sia felice è indispensabile che in essa trovi spazio il piacere, e cioè ancora una volta "un pizzico di follia". 

Ma anche nell'ambito dei rapporti umani, dal matrimonio all'amicizia, è merito della Follia se i vincoli personali resistono felicemente, appunto "nutrendosi di adulazioni, scherzi, di indulgenza, di errori, di dissimulazioni". 
Ugualmente la tenuta dei rapporti sociali, e quindi l'esistenza stessa della società, dipendono dall'ausilio della Follia. 
Ma più di tutto la Follia rappresenta l'unica guida per accedere alla vera sapienza: poiché infatti tutte le passioni, tutti gli umani errori e tutte le umane debolezze, rientrano nella sfera della Follia, saggio è colui che si lascia guidare dalle passioni. 
Precisa l'autore che questi elementi emotivi "non solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della sapienza, ma nell'esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze che esortano al bene". 
Di conseguenza non può considerarsi saggio invece colui che si fa guidare soltanto dalla ragione, essendo simile ad uno spettro mostruoso "un uomo così fatto, sordo ad ogni naturale richiamo, incapace di amore e di pietà"..."un uomo cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai, che tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione, nulla perdona; solo di sé contento...lui solo tutto; senza amici, pronto a mandare all'inferno gli stessi dèi, e che condanna come insensato e risibile tutto ciò che si fa nella vita". 

E' preferibile quindi l'uomo qualunque, "uno della folla dei pazzi più segnalati che, pazzo com'è, possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando a sé la simpatia dei suoi simili...; uno con cui si possa convivere, che infine non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano". 

Ritengo che la concezione della follia espressa da Erasmo da Rotterdam da una parte giunge a sminuire eccessivamente il ruolo e l'importanza che deve essere riconosciuta anche alla razionalità nell'ambito dell'esistenza umana, e dall'altra sembra differenziarsi sostanzialmente rispetto alle più moderne teorie sul tema della pazzia, rappresentata in termini decisamente meno positivi, come una via di fuga dalla realtà (si pensi a Pirandello), oppure come un'emarginazione dalla società. A quest'ultimo proposito Cechov, nell'opera "La corsia n.6", affronta il tema della pazzia anche dal punto di vista scientifico (era laureato in medicina) per dimostrare come essa rappresenti il più delle volte una scelta del singolo di estraniarsi dal mondo, ma talvolta - in determinate realtà storiche- un modo per eliminare dalla società chi non rispetta le regole e le convenzioni predominanti nella società. Il protagonista, un medico psichiatra che si occupa dei malati rinchiusi in un manicomio, finirà infatti lui stesso rinchiuso in quel manicomio per aver cercato di riconoscere dignità umana ai ricoverati.

domenica 5 novembre 2017

Neural basis of Mindfulness

Mindfulness is the dispassionate, moment-by-moment
awareness of sensations, emotions and thoughts. Mind-
fulness-based interventions are being increasingly used
for stress, psychological well being, coping with chronic
illness as well as adjunctive treatments for psychiatric
disorders. However, the neural mechanisms associated
with mindfulness have not been well characterized.
Recent functional and structural neuroimaging studies
are beginning to provide insights into neural processes
associated with the practice of mindfulness. A review of
this literature revealed compelling evidence that mind-
fulness impacts the function of the medial cortex and
associated default mode network as well as insula and
amygdala. Additionally, mindfulness practice appears to
effect lateral frontal regions and basal ganglia, at least
in some cases. Structural imaging studies are consis-
tent with these findings and also indicate changes in
the hippocampus. While many questions remain un-
answered, the current literature provides evidence of
brain regions and networks relevant for understanding
neural processes associated with mindfulness.

Da https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4109098/

La meditazione

“La meditazione ti può dare la forza e l’autoconoscenza necessarie per ritornare a fare da uno spazio diverso, a partire dal tuo essere. Allora un certo equilibrio, una certa pazienza, una pace interiore e una chiarezza si riversano in tutto ciò che fai e la pressione del fare ti sembra meno pesante o addirittura scompare del tutto”

Jon Kabat-Zinn
Da: L’arte di imparare da ogni cosa

La locanda

La locanda
L’essere umano è una locanda,
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.
Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.
Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
Che devasta violenta la casa
Spogliandola di tutto il mobilio,
lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.
Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.
Sii grato per tutto quel che arriva,
perché ogni cosa è stata mandata
come guida da lontano.

Rumi
Tratto da: Riprendere i sensi
Jon Kabat-Zinn

Dialogo nella coppia

  Dialogo e comunicazione nella coppia

Uno degli ingredienti principali per una buona relazione di coppia è senza dubbio la comunicazione: la capacità di comunicare è considerata dagli psicologi uno degli elementi più importanti per il successo di un rapporto amoroso.
L’esperienza ci mostra come le coppie, soprattutto all'inizio del loro rapporto, parlano molto: quando si è innamorati si hanno tante cose da dirsi e si ascolta tutto quello che l'altro racconta. In questa fase, l’ascolto e lo scambio sembrano facili, la comunicazione e il dialogo fluiscono senza problemi e sembra quasi impossibile che ci sia chi trova difficoltà…
Può accadere che, nel tempo, la comunicazione diventi invece più essenziale e difficile. I ritmi intensi delle giornate concedono spazi di comunicazione brevi, spesso legati ad avvenimenti o fatti esterni.   La coppia si racconta come è andata la giornata, parla delle cose fatte e si organizza su quelle da fare, ma non parla più del “noi”.
Una delle difficoltà che molte coppie sposate lamentano è “Parliamo poco tra noi. Diciamo tante cose, ma non riusciamo a parlare di noi”. Allora la capacità di comunicare diminuisce e lascia spazio a silenzi ambigui e a sentimenti inespressi. accompagnati da emozioni quali rabbia, delusione, chiusura.

Dunque appare fondamentale per una coppia riuscire a mantenere vivo nel tempo il dialogo, stabilire un confronto quotidiano con il partner e prendersi il “tempo del noi”.
Comunicare è qualcosa che s’impara e si coltiva.

Perché comunicare?
Solo attraverso la comunicazione ogni persona si mette in relazione profonda e a confronto con un altro; e solo in quel momento riesce a incontrare veramente se stessa e a incontrare veramente l’altro. E’ proprio la comunicazione, il confronto con un altro che ci permette di definire il più profondo di noi stessi, di chiarirlo e conoscerlo. La comunicazione inoltre, è lo strumento principe per capirsi,  per progettare, per agire insieme.
Si comunica per conoscersi:
la conoscenza reciproca è fondamentale in qualunque rapporto di coppia: è indispensabile conoscere a fondo i nostri bisogni, le nostre attese perché allora possiamo attivarci per tenerle in considerazione, renderle reali e far sentire l’altro considerato e accettato. Nel comunicare è importantissimo essere sinceri fino in fondo l’uno con l’altro, senza cedere alla paura di farsi vedere come l’altro ci vorrebbe e senza la paura di non essere amati per quello che siamo.
Si comunica per accogliere ed essere accolti
Il punto di partenza potrebbe essere quello di pensare che quando l’altro parla sta facendo un dono di se stesso. E questo dono va accolto senza giudizi e senza critiche, in modo che si instauri un clima di fiducia e di accoglienza che porta a voler crescere e cambiare. La comunicazione infatti comincia laddove la pretesa cede lo spazio all’ascolto.
Si comunica per sentirsi corresponsabili
La vita di coppia richiede solidarietà, l’attiva partecipazione e collaborazione alla realizzazione dell’altro e al progetto comune. Le forme in cui ciò può concretizzarsi sono molteplici, ma la loro costante assenza, o debole presenza, diventano chiaro segno di scarsa cura e sollecitudine per l’altro e per la strada comune.
Si comunica per chiedere, dare, ricevere.
Il flusso dell’offrire e chiedere, del dare e ricevere, del ringraziare fiorisce  spontaneo e continuo dove c’è comunione d’amore, ma va anche ricercato con fantasia e creatività: nei grandi momenti che segnano la vita con prove, gioie, dolori, ma soprattutto nel tessuto del quotidiano, nei piccoli gesti, nei silenzi come nella parola. Con questa comunicazione incessante, con questo scambio di doni la coppia, anche a sua insaputa, diffonde un’atmosfera di calore, di tenerezza, un contesto di accoglienza, che diventa uno dei segni più chiari e fecondi dell’armonia raggiunta.

Papa Francesco e il DIALOGO

«Il dialogo nasce da un atteggiamento di rispetto verso un’altra persona, dalla convinzione che l’altro abbia qualcosa di buono da dire; presuppone fare spazio, nel nostro cuore, al suo punto di vista, alla sua opinione e alle sue proposte. Dialogare significa un’accoglienza cordiale e non una condanna preventiva. Per dialogare bisogna sapere abbassare le difese, aprire le porte di casa e offrire calore umano» (Papa Francesco).
«Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alla sua opinione, alle sue proposte, senza cadere, ovviamente, nel relativismo. E per dialogare bisogna abbassare le difese e aprire le porte» (Papa Francesco).
«Il dialogo è possibile soltanto a partire dalla propria identità. Io non posso fare finta di avere un’altra identità per dialogare. [...] Io sono con questa identità, ma dialogo, perché sono persona, perché sono uomo, sono donna e l’uomo e la donna hanno questa possibilità di dialogare senza negoziare la propria identità. Il mondo soffoca senza dialogo: per questo anche voi date il vostro contributo per promuovere l’amicizia tra le religioni» (Papa Francesco, Discorso alla Comunità di S. Egidio, 15 giugno 2014)

Dall’Amoris laetitia di papa Francesco (nn. 138-141)

136. Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e impegnativo tirocinio. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno modi diversi di comunicare, usano linguaggi differenti, si muovono con altri codici. Il modo di fare domande, la modalità delle risposte, il tono utilizzato, il momento e molti altri fattori possono condizionare la comunicazione. Inoltre, è sempre necessario sviluppare alcuni atteggiamenti che sono espressione di amore e rendono possibile il dialogo autentico.
137. Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato. Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”.
138. Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro. Si tratta di dare valore alla sua persona, di riconoscere che ha il diritto di esistere, di pensare in maniera autonoma e di essere felice. Non bisogna mai sottovalutare quello che può dire o reclamare, benché sia necessario esprimere il proprio punto di vista. È qui sottesa la convinzione secondo la quale tutti hanno un contributo da offrire, perché hanno un’altra esperienza della vita, perché guardano le cose da un altro punto di vista, perché hanno maturato altre preoccupazioni e hanno altre abilità e intuizioni. È possibile riconoscere la verità dell’altro, l’importanza delle sue più profonde preoccupazioni e il sottofondo di quello che dice, anche dietro parole aggressive. Per tale ragione bisogna cercare di mettersi nei suoi panni e di interpretare la profondità del suo cuore, individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come punto di partenza per approfondire il dialogo.
139. Ampiezza mentale, per non rinchiudersi con ossessione su poche idee, e flessibilità per poter modificare o completare le proprie opinioni. È possibile che dal mio pensiero e dal pensiero dell’altro possa emergere una nuova sintesi che arricchisca entrambi. L’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una “unità nella diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile arricchente di comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispettano e si apprezzano, mantenendo tuttavia differenti sfumature e accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali. E ci vuole anche astuzia per accorgersi in tempo delle “interferenze” che possono comparire, in modo che non distruggano un processo di dialogo. Per esempio, riconoscere i cattivi sentimenti che potrebbero emergere e relativizzarli affinché non pregiudichino la comunicazione. È importante la capacità di esprimere ciò che si sente senza ferire; utilizzare un linguaggio e un modo di parlare che possano essere più facilmente accettati o tollerati dall’altro, benché il contenuto sia esigente; esporre le proprie critiche senza però scaricare l’ira come forma di vendetta, ed evitare un linguaggio moralizzante che cerchi soltanto di aggredire, ironizzare, incolpare, ferire. Molte discussioni nella coppia non sono per questioni molto gravi. A volte si tratta di cose piccole, poco rilevanti, ma quello che altera gli animi è il modo di pronunciarle o l’atteggiamento che si assume nel dialogo.
140. Avere gesti di attenzione per l’altro e dimostrazioni di affetto. L’amore supera le peggiori barriere. Quando si può amare qualcuno o quando ci sentiamo amati da lui, riusciamo a comprendere meglio quello che vuole esprimere e farci capire. Superare la fragilità che ci porta ad avere timore dell’altro come se fosse un “concorrente”. È molto importante fondare la propria sicurezza su scelte profonde, convinzioni e valori, e non sul vincere una discussione o sul fatto che ci venga data ragione.
141. Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. Diversamente, le conversazioni diventano noiose e inconsistenti. Quando ognuno dei coniugi non cura il proprio spirito e non esiste una varietà di relazioni con altre persone, la vita familiare diventa endogamica e il dialogo si impoverisce.


Nella vita di tutti i giorni…
Carlo e Sandra sono insieme da circa quattro anni. Carlo si è appena laureato ed è in cerca di un lavoro stabile, che probabilmente otterrà alla fine dei 6 mesi per i quali è stato assunto in un’azienda come ingegnere elettronico. Sono molto contenti di lui e questo lo rende fiducioso. E’ innamorato di Sandra, vuole costruire con lei una famiglia per poterle stare vicino sempre. Sandra invece sta frequentando la facoltà di giurisprudenza: tutti sanno che le mancano due esami e la tesi, ma la realtà è diversa. Da poco più di un anno Sandra non riesce a dare esami: studia, si prepara, ma quando arriva il giorno dell’esame si fa prendere dal panico ed evita di rispondere all’appello. Un po’ per paura di deludere i genitori, un po’ per orgoglio personale che le impedisce di ammettere una difficoltà, dice a tutti di aver sostenuto l’esame, ripromettendosi ogni volta di  rifarlo all’appello successivo e di rimettersi in pari senza dover rivelare nulla a nessuno. Non sa dire perché non ne ha mai parlato con Carlo, col quale ha un ottimo rapporto di fiducia e di amore, ma ormai le sembra troppo tardi per non causare una bufera.
Ora però che Carlo comincia a fare discorsi più concreti sul loro futuro, Sandra si rende conto di aver commesso un errore madornale, al quale non sa come rimediare….

Vi chiediamo di mettervi nei panni dei due fidanzati:
- Come affrontereste il problema, da una parte e dall’altra?
- Come trovereste le parole?
- Quale pensate sarebbe la vostra reazione?
- Provate a dirvi se vi siete sentiti capiti, ascoltati, giudicati, offesi


giovedì 14 settembre 2017

Nietzsche e la follia

www.corriere.it/cultura/libri/11_novembre_30/nietzsche-epistolario-1885-1889_d9367c76-1b59-11e1-915f-d227e00dc4bd.shtml

Nietzsche, viaggio fatale oltre il confine della follia

I giorni più tragici del genio che sfidò il mondo

Friedrich Nietzsche non era una mente, ma un clima. Il barometro agiva su di lui come un destino: aveva una sensibilità meteorologica intensissima, ed era così indifeso davanti allo svariare delle luci e delle temperature, che a volte scorgeva in se stesso una debolezza radicale, dalla quale non avrebbe mai saputo liberarsi. Se il clima aveva un'influenza simile su di lui, si trattava di scegliere un clima. Non sopportava quello della Germania dove era nato, né quello di Basilea, dove aveva insegnato per anni. Allora, per il resto della sua vita, emigrò nella Francia meridionale e in Italia: Mentone, Nizza, Genova, Sorrento, Messina, i laghi lombardi, Venezia, Roma, Torino - oltre che l'incomparabile Sils-Maria, in Engadina. Ma, anche lì, trovava nemici: la nebbia, le nuvole, l'umidità, il caldo, il freddo, l'eccesso o l'assenza di luce. Non sopportava l'inimicizia della natura: se il cielo era coperto, una tenaglia lo stringeva attorno alla testa, gli impediva di respirare, di pensare, di sentire, di scrivere, di camminare. La vita diventava tragica, come se fosse Aiace o Edipo, e potesse vivere soltanto nell'atmosfera irrimediabile della tragedia. Ancora una volta fuggiva: e poi di nuovo fuggiva; alla caccia di quel freddo mite e di quell'aria stimolante, che gli permettevano di scrivere.
Alla fine del 1883, Nietzsche giunse a Nizza, dove abitò tutti gli altri inverni della sua vita, fino al tremendo inverno del 1888, a Torino, quando piombò nella follia. Il clima di Nizza gli piaceva e lo incantava indicibilmente. Il cielo era luminoso e limpidissimo, senza una nuvola: l'aria secca e vivificante: il mare di un blu tropicale: nelle notti, i chiari di luna facevano vergognare e arrossire i lampioni a gas: sentieri portavano nelle colline: le arance gialle occhieggiavano tra i rami: la natura aveva una eleganza mondana, libera e grandiosa, che entrava e possedeva la città: l'inverno, i colori erano impastati di un luminoso grigio-argento; e anche se qualche volta le montagne vicine si incipriavano di bianco, non sembrava una malvagità, ma una specie di maquillage della bellissima incantatrice meridionale. Non c'era sosta, non c'era requie: durante l'anno, Nizza aveva duecentoventi giorni assolutamente tersi e sereni; senza rivali in Europa, nemmeno sulla riviera ligure. Settimane dopo settimane, il cielo splendeva puro da mattina a sera. «Nizza mi incanta sempre - diceva - come se non l'avessi mai vista». Il 21 giugno 1885, a St. Jean, vide delle splendide siepi di geranio, verdi e con i fiori rossi.
Così Nietzsche, che non aveva ancora compiuto i quarant'anni, si sentiva ringiovanire; e gli sembrava che Nizza lo proteggesse. Il nome non derivava forse dal greco antico Nikaia, e da Nike, che significava Vittoria? La testa era diventata più libera di anno in anno: lo spirito vivace sopportava con maggior leggerezza il proprio fardello - il tremendo fardello a cui è condannato ogni filosofo; i pensieri erano ardimentosi e veloci, e la mano vergava parole rapidissime sulla carta. Abitò quasi sempre alla Pension de Génève, petite rue St. Etienne. La stanza era lunga e larga: il letto era tre volte più grande del suo letto tedesco; e dalla alta finestra guardava gli enormi eucaliptus, grandi edifici rossastri, la bella curva della Baie des Anges, lo square des Phocèens, la Corsica nella lontananza; e gli pareva di aver afferrato una piccola parte - non più della coda - di quella felicità che gli era sempre sfuggita.
Soffriva terribilmente di solitudine. Credo che ne soffrisse sempre, anche quando era bambino, anche negli anni di insegnamento a Basilea, circondato da professori e studenti che lo ammiravano, e nei tempi dell'amicizia con Richard e Cosima Wagner - i giorni della felicità e della fiducia. Ma la parola solitudine non basta, per comprendere l'istinto profondo di Nietzsche. Era troppo orgoglioso per credere che qualcuno «potesse amarlo». Allora, con una specie di furore demoniaco, recideva ogni rapporto con qualsiasi essere umano: non desiderava essere affine a nessuno, né vivo né morto: non voleva sentire nessuna voce di risposta; sempre soltanto l'eco della sua molteplice voce, ripetuta migliaia di volte. Era un'esperienza terribile, che poteva distruggere l'uomo più duro, e tanto più lui, che era tanto gracile e fragile. Così, via via, la solitudine cresceva, fino a coprire l'ultimo orizzonte: egli era l'uccello selvatico perduto nei cieli: il remoto isolano che nessuna lettera raggiungeva: il fuggiasco e l'esule; o il filosofo, trincerato nella sua tana o nel suo antro infernale. «Una filosofia come la mia - diceva - è come una tomba. Non si riesce a vivere insieme a lei».
Quando lasciò Basilea per peregrinare in Italia, accusò gli amici di averlo abbandonato. Non era vero: lui aveva abbandonato gli amici; anzi, tutto il genere umano, che aveva cancellato con un gesto. Nessuno - ripeteva - gli faceva un cenno d'affetto, nessuno aveva bisogno di lui, nessuno si preoccupava di curarlo, nessuno cercava di scoprire quali sentimenti si nascondessero dietro i suoi libri. «Ho avuto l'impressione - scrisse alla madre - che tutto il mondo, in lungo e in largo, tacesse; nessuna farfalla in forma di lettera si è persa in volo fino a giungere alla mia abitazione». «Intorno a me - ripeteva a un'amica - s'è fatto davvero il vuoto: non c'è nessuno che abbia un'idea della mia condizione... Non ho sentito per dieci anni nemmeno una parola che penetrasse fino a me. È una cosa che astrae da ogni rapporto umano, e crea un'intollerabile tensione e vulnerabilità. È come essere un animale continuamente ferito». Mentre accumulava solitudine sulle sue spalle, cercava sempre più affetto: il calore dell'amicizia, come quella con Franz Overbeck, suo antico collega a Basilea, che intiepidisce e addolcisce le parti più desolate dell'epistolario. Soprattutto desiderava amici più giovani. Quando morì Heinrich von Stein, provò un immenso dolore: perché aveva sperato che la sua esistenza giovanile così fresca e fervida fosse riservata proprio a lui per il futuro.
Dopo il 1886, ebbe l'impressione che la sua vita si trovasse come in un pieno meriggio. Si gettò dietro le spalle i libri della sua giovinezza e della sua maturità - Aurora, Gaia scienza - che restano, in realtà, i suoi capolavori. Si prefisse un compito: creare un immenso sistema filosofico, che desse compattezza e coerenza a tutto ciò che aveva, fino allora, sparsamente pensato. Non si faceva illusioni: forse non avrebbe creato nessun sistema: avrebbe trovato soltanto un pertugio attraverso il quale fissare l'ineffabile; e, in ogni caso, il compito sarebbe stato uno di quegli strumenti di tortura che si usavano anticamente. Aveva bisogno di rinunciare completamente a se stesso e di non pensare più al suo io: trovando calma, disciplina, quiete, una precisione quasi militaresca, e trasformando gli eventi fortuiti in un destino. Per tutto questo, gli era necessaria una solitudine ancora più estrema di quella che aveva conosciuto fino allora. Lentamente, cominciò a prepararla e a costruirla. Ma fu il supremo dei suoi fallimenti: perché, in fondo a questa solitudine volontaria, trovò la lacerazione e la frantumazione della follia.
La solitudine aveva un altro nome: malattia. Era il suo vero nome. Ci furono mesi in cui Nietzsche era malato per tre settimane, giorno dopo giorno. In altri casi, subiva attacchi improvvisi di tutte le sue malattie congiunte, che lo lasciavano sconvolto e distrutto, sull'orlo della catastrofe. Aveva violentissimi assalti di emicrania, che gli impedivano di pensare: dolori alla schiena, che gli impedivano di viaggiare: insonnia, vomito, giramenti di testa, raffreddori, spossatezza, svogliatezza, eccitabilità, depressione, disperazione. Tutto quanto proveniva dall'esterno lo faceva ammalare: la cosa più piccola cresceva fino a diventare mostruosa; e solo in circostanze favorevoli, con un'estrema attenzione e accortezza, riusciva a raggiungere un equilibrio fragilissimo. E poi c'erano gli occhi, i debolissimi occhi: macchie, offuscamenti, arrossamenti, lacrimazioni, veli che si muovevano davanti allo sguardo, anche se il tempo era bello e sereno. La quasi cecità accresceva l'angoscia della solitudine - sebbene, in modo per noi inconcepibile, egli riuscisse a leggere e a scrivere moltissimo. Non so se egli conoscesse le cause della sua malattia, doppia come quella di Leopardi: sia organica sia psicologica. Da un lato soffriva di sifilide, che aveva contratto non sappiamo quando: dall'altro di psicosi maniaco-depressiva, che lo gettava dall'esaltazione della paranoia alla «ostinata nera orrenda barbara malinconia», di cui decenni prima aveva parlato Leopardi.
L’opera su Nietzsche è una della serie dedicata ai filosofi da Werner Horvath. Nato a Linz nel 1949, Horvath è un medico radiologo che si è dedicato alla pitturaL’opera su Nietzsche è una della serie dedicata ai filosofi da Werner Horvath. Nato a Linz nel 1949, Horvath è un medico radiologo che si è dedicato alla pittura
Il 5 aprile 1888 Nietzsche giunse, per la prima volta, a Torino, lasciando le rive del mare. In pochi giorni, l'antica capitale sabauda lo affascinò completamente: come mai, fino allora, nessun luogo della terra, nemmeno Venezia, Nizza e Sils-Maria. Le molte lettere che dedicò a Torino sono, forse, le più belle pagine che siano mai state dedicate a una città moderna; e, certo, le più belle conosciute da Torino, che viveva un momento felicissimo della sua storia, folto di nuove costruzioni e di librerie colte. Nietzsche, che adorava il clima di Sils-Maria, non avrebbe mai creduto di ritrovare, in quella città di pianura, la stessa aria secca, stimolante, elastica, energica, trasparente, ispirata dell'Engadina, di cui aveva bisogno, se voleva muovere il suo stile vibrante e flessibile.
Le montagne nevose erano vicinissime; e Nietzsche amava le larghe strade che sembravano correre diritte verso le nevi come verso le loro madri. Amava i viali pieni di splendidi alberi dalle foglie verdi e brillanti, che correvano oltre il corso del Po: il cielo e il grande fiume di un tenero azzurro, come in un Claude Lorrain che non aveva mai visto. Nella città, costruita nel Seicento e nel Settecento, c'era dovunque un'aria di corte: una calma, un silenzio e una quiete aristocratiche, e un'«unità di gusto» che si estendeva al colore giallo o rosso-crema dei palazzi. Nietzsche non aveva requie: attraversava piazza San Carlo, piazza Carignano e piazza Madama: modulava col piede i nobili selciati delle strade, attraversava le vaste piazze, che emanavano un senso straordinario di libertà, percorreva i lunghissimi e ampli portici, che proteggevano i suoi occhi dal sole, ed entrava nei gloriosi caffè, dove diventò presto un intenditore di gelati, spumoni e pezzi duri.
Passò una pessima estate a Sils-Maria, che, per una volta, lo tradì col freddo, i temporali e la tempesta. Fu sovente ammalato. Ma poi la sua Perla Perlissima, come la chiamava, aprì a ventaglio la sua antica e seducente coda di pavone dai colori meridionali. Il tempo toccò «una sublime perfezione terrena». Comparve una meravigliosa atmosfera estiva: tutti i colori in pieno splendore, un blu di lago e di cielo, l'aria tersa, mentre le montagne bianche fin quasi a fondo valle esaltavano in ogni modo l'intensità della luce. Il 21 settembre 1888 Nietzsche era di nuovo a Torino, fuggendo l'Engadina e la Lombardia alluvionate. Ritrovò, in chiave autunnale, la bellezza amata in primavera. Ma il tono delle sia pur bellissime lettere è cambiato: si avverte, nella descrizione della vita quotidiana, un di più di esaltazione, un'euforia, un incanto alcoolico, che rivelano come il pendolo della psicosi tendesse pericolosamente verso l'alto, verso il culmine dell'abisso.
Ciò che colpisce, in queste ultime lettere, folgorate dalla luce della follia, è il fatto che Nietzsche vi ripeteva le parole che aveva sempre scritto. Ma ora tutto veniva stravolto. Nei suoi grandi libri, aveva avuto una sensibilità così fine e ramificata da ripetere tutte le voci e i suoni del mondo: mentre, nelle vie di Torino, egli era letteralmente Buddha, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Shakespeare, Voltaire e Napoleone. Nietzsche era stato Dioniso e Gesù Crocifisso: Dioniso nel Crocifisso e il Crocifisso in Dioniso. Ora tutto si avverava: sotto le spoglie di Nietzsche, Gesù saliva sulla croce, dileggiato e deriso: Dioniso era fatto a brandelli dai Titani e smembrato in un numero infinito di individui; ed entrambi si trasformavano, venivano salvati, salvavano, mentre - Nietzsche commentava - «il mondo è trasfigurato, poiché Dio è sulla terra. Non vedi come i cieli gioiscono? Ho appena preso possesso del mio regno».
La notizia della follia di Nietzsche si diffuse rapidamente tra gli amici e i conoscenti. Franz Overbeck lasciò la stazione di Basilea la sera del 7 gennaio 1889, e il giorno seguente, dopo 18 ore di viaggio, era a Torino, cercando l'abitazione di Nietzsche nella città sconosciuta. Voleva riportarlo a casa. Finalmente riuscì a entrare nella stanza, dove Nietzsche aveva «pensato, scritto riso e delirato» per mesi. Stava rannicchiato nell'angolo di un sofà, col volto terribilmente emaciato.
I due amici si abbracciarono lacrimando: poi Nietzsche si lasciò ricadere sul sofà, sconvolto da sussulti di pianto. «Forse proprio in quell'attimo - scrisse Overbeck - gli si spalancò davanti l'abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato». Poi Nietzsche si sedette al pianoforte, dove cantava a voce spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre di più. Proclamava di essere «il pagliaccio della nuova eternità», e rendeva la sua gioia con le espressioni più triviali, o con balzi e danze scurrili, o con smorfie da istrione. Overbeck ebbe una impressione atroce: quello spettacolo incarnava con terribile efficacia l'idea orgiastica della follia sacra, sulla quale era fondato il teatro antico. Adesso, tutto era finito: tutto quel possente mondo tragicomico - Eschilo, Aristofane, Le Eumenidi, Le Rane, Le Nuvole - si esprimeva attraverso la sua scurrile degradazione. Nel mondo moderno, Dioniso, l'antichissimo dio dell'estasi e della lacerazione, era diventato un pazzo, sottoposto, come il professor dottor Friedrich Nietzsche di Basilea, a un processo di «paralisi progressiva».
Pietro Citati


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